Cineforum di ProssimaMente: Old Boy

Il film che avrei voluto fare. Sono queste le parole pronunciate da Quentin Tarantino dopo aver visionato quest’opera eccelsa. Un vero e proprio cult, un misto avvincente di intrighi e pathos. Questo è old boy che attraverso la sua trama sopraffina e intelligente riesce a mettere in scena la complessità di un cinema che raramente ci lascia insoddisfatti. Il secondo film della trilogia della vendetta di Park Chah Wook ci offre enormi spunti di riflessione.

Quest’opera, ispirata a un manga giapponese, ci mostra una grande originalità soprattutto in quelle situazioni di iperrealismo o realismo magico di scuola letteraria sud-americana (Isabel Allende) in cui la logica è della vendetta non vede alcuna razionalità ma, al contrario, si muove alla ricerca di un appagamento confuso e forzato del bisogno.

Già nel titolo stesso si ritrova una certa capacità letteraria del regista. L’ossimoro qui presente rispecchia l’Io del protagonista il cui nome, paradossalmente, significa “colui che sta bene con gli altri”. Anche la reclusione ha un forte valore simbolico: quando vi entra non ha ricordi, è vecchio (dentro e fuori) e alcolizzato. Quando vi esce sarà ringiovanito, e si troverà a dover trovare nel suo passato nascosto il motivo della sua reclusione.

La prigionia di Tae Su lo porta a ricercare nella vendetta quel motivo di spinta verso la vita. Una vita egoistica che non lascia spazio ad altri sentimenti o interessi. Le uniche fonti di distrazione sono la televisione, dalla quale apprende i cambiamenti del mondo, e le immagini appese nella parete. Proprio qui si ritrova un altro riferimento letterale proposto dal regista, ovvero il ritratto del protagonista che, come una sorta di Dorian Gray (sempre più scolorito nel film) va a fungere da specchio del malessere di Tae Su.

A Wook va riconosciuta, oltre che la sua grande capacità letteraria dimostrata, anche la sua enorme qualità in ambito di regia. Numerosi sono i flash back, i primissimi piani, le voci fuori campo e le anticipazioni sonore, ma anche i grandangoli deformanti, e i dialoghi ricercati.

Anche le immagini ci presentato una forte espressività sottolineata da atti estremi talvolta al limite del razionale. Questi atti vanno a mettere in evidenza l’egoismo dei personaggi e la loro sete di vendetta che va oltre il semplice appagamento desiderato. Tra le scene migliori vi è sicuramente il piano sequenza della lotta che è un chiaro esempio della qualità della regia.

Altro tema riguarda l’immensa solitudine di Tae Su. Questo è sofferente ma inganna il pubblico e sé stesso attraverso un sorriso falso che accompagna insieme alla frase: “sorridi e il mondo sorriderà con te, piangi e piangerai da solo”.

Meritatissimo Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes.

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